A te navigante...

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martedì 11 novembre 2014

Non vado mai in vacanza



Guardo le cime degli alberi scompigliate dal vento e annuso l'aria. Sto a braccia conserte ferma, in posa plastica. Una statua immobile, in realtà ho i sensi all'erta: sono al lavoro.
Mi dicono che io sia il mio lavoro e hanno ragione. Non mi concedo pause, non posso, loro non me  lo permettono.
Vorrei tanto riposare, dormire finalmente dopo un'eternità che veglio. Mi piacerebbe dimenticarmi di tutto, prendere una canna da pesca e andare in vacanza. Tutti fanno una pausa, tutti trovano il tempo di riposare. Se io facessi una pausa, sarebbe una catastrofe.
So pescare molto bene. Le prede le annuso, le soppeso e le tiro su, a volte a caso, a volte sbaglio ma errare non si dice che sia umano?
Forse di umano di in me non c'è nulla, una macchina che tritura il tempo. Io e il tempo andiamo di pari passo, a volte ci teniamo per mano, a volte lui mi precede ed entro in scena io. Una prima donna che non riceve mai applausi.
L'uomo è irriconoscente. Non mi guarda e se per un breve attimo scorgesse il mio volto, si volterebbe dalla parte opposta. Si aggrapperebbe all'esile speranza che io non lo noti e passi oltre, rincorrendo il tempo.
Fa freddo qui. È da qui che io li vedo, li osservo e giro la clessidra per loro. Quella sabbia che cade, grano a grano senza scompigliarsi, piccoli attimi che fuggono via. Io, impassibile,  ne osservo lo scorrere e ne soppeso la discesa.
Le loro voci in quest'aria rarefatta si mescolano. Risa e piccole grida di gioia, colpi di tosse, rantoli, singhiozzi  di dolore, lo stridio di una frenata estrema. Qualcuno mi sta chiamando laggiù. Un punto minuscolo, insignificante come il piccolo grano di sabbia. Lo ignoro e mi volto dalla parte opposta. 
Là c'è tanto lavoro da fare. Sospiro. Un fumo denso e nero ha coperto il limpido del cielo. Mi arriva il suono di rombi lontani. Il campo di battaglia ne è saturo.
Il tempo corre avanti e non mi dà scampo. Il mio piccolo sogno svanisce, soffocato dal dovere.
Indosso i  miei panni da lavoro, comodi, per non impedirmi il movimento e scendo. Corro a perdifiato, quasi mi libro nell'aria per far prima. Nessuno mi nota, come sempre. Nessuno guarda davvero il mio volto. Un volto insignificante da tra tanti volti, è per questo che non fallisco mai un colpo.
Quel ragazzo laggiù, steso sull'erba bagnata però mi ha scorto e mi ha riconosciuta. Il volto contratto si gira verso di me e quasi m'implora di fare il mio dovere. Provo pietà, io che non dovrei mai interferire con loro. È giovane ma i grani di sabbia sono finiti. 
Lo abbraccio e lo bacio, chiudendogli gli occhi. Sua madre gli ha dato la vita, io quella vita, la raccolgo con rispetto. La ripongo china davanti a tanta bellezza, l'allineo con le altre preziose gemme che si sono perse per sempre.
Il tempo avanza e io debbo seguirlo. Lancio un ultimo saluto al ragazzo e passo oltre. Qualcuno ride di gioia.  Certe volte sono distratta, almeno così faccio credere loro, in realtà mi piace volgere lo sguardo altrove ed essere clemente. Ci sarà sempre tempo e passerò di nuovo, questo è inevitabile per me e per loro. Questo lo sanno, ma sono felici di aver rimandato l'incontro.
Tutti immaginano che io abbia un aspetto terrificante, spolpato, avvolta in nero mantello, mi celo fin sugli occhi un cappuccio ampio. In mano una falce.
Sorrido, sono ingenui, sperano così di esorcizzare la paura che incuto. 
Il mio volto è il loro volto, i miei abiti sono gli abiti che indossano e la mia determinazione e la freddezza che alberga in me è la stessa che racchiudono quando mi afferrano la mano spietati. 
L'essere spietata non fa parte del mio lavoro, l'aggiungono loro attribuendola a me. 
L'uomo è spietato.
La Morte no.

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