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martedì 4 luglio 2017

Il cavaliere rinnegato



Questo racconto ha vinto il primo premio del concorso letterario "In viaggio sulla Francigena" 2017, indetto dal comune di Formello


Anno Domini 1205 d.c.

I rumori nella foresta erano amplificati dal silenzio e gli zoccoli dei due cavalli rimbombavano nella valle. Il rumore sordo copriva i pensieri sinistri che annebbiavano la mente del Cavaliere.  
Pioveva dalla mattina presto. L'acqua scivolava sui mantelli inzaccherati rendendoli pesanti e appiccicati al corpo. Gli zoccoli affondavano nel fango producendo spruzzi d'acqua.
Ser Crisanto non aveva emesso neanche una sillaba, così come il suo scudiero che lo seguiva silenzioso e accorto. Scrutava il terreno e teneva d'occhio la pista. Le armi tintinnavano al trotto dei cavalli.
Ser Cristanto aveva conosciuto Alderico a palazzo, alla corte del suo signore, al quale aveva giurato fedeltà. Nobile di nascita, Alderico aspirava a diventare cavaliere e seguì Crisanto per imparare l'arte della cavalleria, da tempo brandivano la spada e la picca come un sol uomo.
Il viaggio sarebbe stato lungo e periglioso ma non era questo che preoccupava i due uomini.
Dovevano fare presto, non potevano fermarsi se non il necessario, perché di tempo ne era rimasto poco.
Ser Crisanto fece un cenno e Alderico tirò le redini.
- Ci accamperemo qui questa notte, è ormai l'imbrunire. Alderico l'aiuto a smontare da cavallo.
Si trovavano sulla via dei Pellegrini che conduceva alla città del Papa. Si accamparono a un'ora da Formello, nella tenuta dei Benedettini di proprietà della lontana Abbazia di S. Paolo. Il bosco era composto di querce e alloro. Nell'aria si respiravano profumi balsamici emanati dalle piante intrise d'acqua. Cavaliere e scudiero, scesi dai cavalli, li lasciarono riposare e accesero un fuoco per scaldarsi le ossa. Mentre erano intenti a cibarsi delle poche scorte rimaste, si avvicinarono un monaco col cappuccio calato sugli occhi e tre pellegrini. Indossavano un mantello di ruvido tessuto, un cappello a larghe tese rialzato sul davanti e legato sotto il mento. Chiesero se si potessero scaldare anche loro, avrebbero diviso il cibo. Il cavaliere guardò Alderico, non si fidava, avrebbero potuto essere spie o sicari travestiti, ma non poteva negare l'ospitalità. Fece cenno al gruppo di sedersi vicino al fuoco. Uno di essi si slegò la bisaccia di pelle da attorno la vita e prese della carne essiccata. 
- Dove siete diretti? - Chiese Alderico al monaco che si era abbassato il cappuccio. Aveva due occhi neri e vivaci e una folta barba.
- A Roma, andiamo nella città santa.
- Da dove venite? - Chiese Crisanto.
- Da molto lontano, da una città sulle montagne, Aosta – Rispose il monaco in una strano accento - è stato un lunghissimo viaggio lungo la Romea.
Ser Crisanto annuì. Osservava il monaco con insistenza, continuava a non fidarsi.
Dopo i convenevoli, ser Crisanto  e Alderico si allontanarono sistemandosi per la notte qualche metro più in là, con le armi nascoste sotto i mantelli. Avrebbero dormito a turno.
- Cosa vuole padre Abelardo? - Sussurrò Alderico che ancora non conosceva il motivo del loro viaggiare.
Ser Crisanto fissò il fuoco e non rispose. La spilla appuntata su una spalla, sopra al mantello, brillò alla luce delle fiamme.
Il profilo duro del Cavaliere era illuminato dalla luce rossastra. I bagliori del fuoco facevano risaltare una lunga cicatrice che dall'occhio sinistro scendeva giù verso l'angolo della bocca imbronciata, traversando tutta la metà del volto. Come preso alla sprovvista e sentendosi osservato da Alderico, tentò di coprirla con una ciocca dei capelli che gli scendavano sulle spalle. Un gesto involontario e inutile.
- Cerca di dormire un po' – disse  il Cavaliere – Domani sarà un viaggio lungo.
Alderico si avvolse nel mantello e obbedì. Ser Crisanto vigilava nella notte e insieme inseguiva le immagini del passato, perso nei suoi fantasmi. Più in là il monaco e i pellegrini russavano.
Erano trascorsi anni oramai da quando lui e Alderico erano stati costretti a fuggire senza nessuna speranza di poter tornare. Ora, però, il  benedettino padre Abelardo  l'aveva fatto avvertire. Aveva ricevuto notizie nefaste riguardanti Madonna Marozia, sotto la sua protezione. Era ora in pericolo. La nobildonna, sotto mentite spoglie, era stata affidata alle cure di una contadina che viveva in una capanna tra i vigneti, fuori della porta di Formello. 
Per anni la nobildonna aveva vestito gli umili abiti di contadina, aveva imparato a comportarsi come tale, pur di sopravvivere, i suoi lineamenti delicati di fanciulla erano induriti e arsi dal sole, una donna ormai sfiorita. Nessuno fino ad allora aveva mai avuto sospetti sulla sua identità.
Ora era stata individuata, forse tradita da chi avrebbe dovuto proteggerla. 
Il Cavaliere aveva sempre davanti agli occhi il volto della fanciulla che era stata, non l'avrebbe potuta riconoscere. 
Dopo il fatto, era fuggito al nord e Alderico sempre fedele era stato al suo fianco. 
Ser Crisanto sperava di arrivare in tempo, il viaggio  era durato quattro giorni coi cavalli spronati al massimo. Erano partiti seguendo la via Francigena, nei pressi della città fortificata di Lucca. Anni prima erano stati accolti come pellegrini in visita al Volto Santo e da allora avevano sempre vissuto lì, nascondendosi dai nemici che non avevano smesso di cercarli.
- Ser, ho il timore che qualcuno stia seguendo le nostre tracce – Disse Alderico.
- Aiutami con l'armatura, dobbiamo essere pronti  – Rispose sospirando rassegnato Ser Crisanto.
Alderico lo aiutò ad indossarla e a risalire in sella. L'elmo lucidissimo mandava bagliori. 
La prima volta che Crisanto aveva conosciuto madonna Marozia era stato quando il Vescovo aveva suggellato l'unione tra il suo signore e la fanciulla.
Lui, Alderico e un paio di cavalieri erano partiti per scortare il conte verso le terre della famiglia di Madonna Morozia. Il fidanzamento era stato suggellato dal nobile alla nascita di Marozia,  figlia del suo migliore amico, suo pari, che possedeva un vasto territorio nei pressi della città di Viterbo. Il conte aveva circa una quarantina d'anni. Con il matrimonio acquisiva metà del territorio del suocero  come dote. Madonna Marozia era una giovanissima fanciulla di circa quattordici anni, dal volto innocente e infantile. Quel giorno era agghindata per le nozze, stretta in abito lungo e sfarzoso di raso rosso, i lunghi capelli biondi e inanellati, sciolti sulle spalle e coperti da un velo. Non aveva mai visto prima il futuro marito e nelle sue fantasie di ragazzina,  sognava l'amore come tutte le fanciulle. Trovarsi davanti un vecchio come futuro marito, fu una profonda delusione. Nessuno le aveva parlato di lui se non alla vigilia delle nozze, quando sua madre le aveva detto quanto fosse importante per la loro famiglia quell'unione. Marozia, appena uscita dall'infanzia, acconsentì senza nulla comprendere. Non avrebbe comunque avuto scelta.
Davanti al vescovo che ne suggellò l'unione, ella appariva pallida e smarrita, gli occhi spalancati e timorosi. Fu allora che Crisanto rimase incantato da quegli occhi e i loro sguardi per pochi attimi si persero l'uno nell'altra. Per Crisanto fu come se i presenti sparissero, c'era soltanto lei,  in cerca di un volto amico che la confortasse. Cosa avrebbe potuto fare il giovane cavaliere? Nulla, se non giurare fedeltà assoluta a lei. Ser Crisanto aveva giurato al suo signore, al tempo della sua investitura, ma il vero giuramento lo fece a lei, in quel momento, segretamente, nel profondo del suo cuore.
Il banchetto che seguì le nozze fu ricco e sfarzoso e durò giorni, tra libagioni, fiumi di vino e madrigali ove i musici tessevano le lodi degli sposi in rime composte per l'occasione.
Ser Crisanto partecipò al torneo in onore della sua signora e si batté con onore contro i migliori cavalieri, vincendo su tutti, avrebbe dato la vita per lei.
Non riusciva a dimenticare lo sguardo di madonna Marozia, un misto di meraviglia e innocenza, alzato su di lui, vincitore. Lui si era inchinato davanti alla sua signora, in segno di sottomissione e rispetto, ma il suo cuore aveva sussultato accelerando i battiti. Lei abbassando lo sguardo, gli aveva fatto un piccolo cenno col capo.
Per molto tempo, lui, non fece trapelare quei sentimenti che lo scombussolavano ogni volta che la scorgeva da lontano, mentre passeggiava in giardino assieme alla sua dama di compagnia.
L'osservava circospetto e scorgeva in lei i segni di una profonda tristezza che aveva spento la spensieratezza della fanciulla. Si contentava di amarla in silenzio e non avrebbe  mai sospettato quello che lei provava per lui.
Fin dall'inizio la sua innocenza era stata brutalizzata da un marito violento, piegata con la forza e picchiata ogni volta che lui s'adombrava, spesso ubriaco. Spariva per giorni, a caccia nelle sue tenute per riapparire con addosso l'odore di altre donne. A lei non importava, avrebbe voluto che non tornasse più, vittima di qualche incidente di caccia. Avrebbe voluto che morisse. Piangeva in silenzio, chiusa tra le spesse mura del castello odiandolo per la brutalità e la rozzezza mentre tutti lo ammiravano e riverivano. Era quello il suo destino, fin da quando era nata. Per sfuggirne si rifuggiava nei sogni dove lei e il suo Cavaliere erano felici.
Un giorno, il suo signore  e marito sostò per la prima volta nel castello sull'altura del Sorbo, presso Formello,  ospite dei benedettini che ne erano proprietari. Racchiusa tra quelle mura, vi era una piccola cappella, consacrata alla Madonna del posto. Lì Marozia si raccolse in preghiera. 
La luce che filtrava dagli abbaini della cappella, illuminava d'oro i suoi capelli. Fissava il ritratto della Vergine e pregava concentrata nell'atto, sembrava un angelo triste.
Ser Crisanto sapeva che ella era lì e aveva voluto incontrarla,  parlarle per la prima volta, forse se avesse raccolto abbastanza coraggio, quello che non gli mancava in combattimento, le avrebbe dichiarato il suo amore. Entrò nella penomba della cappella e rimase inchiodato al pavimento nel rimirare quell'immagine angelica.
Lei non girò lo sguardo, sapeva che lui era lì, il tintinnare del metallo della spada contro i calzari le aveva annunciato la di lui presenza. Il cuore le fece una capriola e il respiro le si mozzò tra le labbra.
Lentamente lui avanzò  e le si sedette accanto, girando il viso verso di lei. Madonna Marozia non riuscì più ad ignorarne la presenza e ne  incrociò lo sguardo, non disse una parola, ma lui, intrappolati in quello sguardo, lesse sentimenti segreti, amore, sofferenza e disperazione.
Ser Crisanto uscì precipitosamente dalla cappella, sopraffatto da quel fiume di sentimenti inespressi.
Da quel momento nulla fu come prima. Lui la sognava da lontano, lei si struggeva immaginando di essere tra le sue braccia.  Sopportava con insofferenza crescente la violenza e la rozzezza del suo signore e marito.
Qualche tempo dopo, Ser Crisanto trovò, nella sua stanza, un cofanetto di radica di legno di quercia, impreziosito da una chiusura finemente cessellata in argento, raffigurante le ali d'un angelo. Capì all'istante che proveniva da lei. L'aprì, dentro un gioiello di fine fattura, un'immagine mariana che le apparteneva, il cavaliere l'aveva visto appuntato sul suo petto. Fu il pegno d'amore che lei gli donò affinché lo proteggesse dalle avversità.
Un giorno nefasto, Ser Crisanto venne a sapere che Madonna Marozia era stata rinchiusa nella torre del castello, prigioniera di quell'uomo violento. Si mormorava, che  pazzo di gelosia, avesse avuto il sospetto che lei spasimasse per un altro perché si era negata ai suoi desideri. L'indole violenta del marito si scatenò contro di lei, il suo volto tumefatto ne portava i segni. Fu minacciata di essere ripudiata, la rovina per una giovane donna e il buon  nome della famiglia di lei, poi, l'avrebbe fatta rinchiudere in un convento di clausura dove avrebbe trascorso il tempo ad espiare la sua colpa.
Il cavaliere aveva giurato a lui fedeltà, ruppe quel giuramento.
Lo affrontò in un duello cruento, le spade scintillavano cozzando in un rumore di ferraglia. La forza di Crisanto centuplicata dall'odio verso il conte. 
Il Signore accecato dall'ira lo colpì al volto, in un fendente trasversale, sfigurando con sadismo e per vendetta quella bellezza maschia che aveva fatto perdere la testa a Marozia.
Ser Crisanto vacillò, indietreggiò accecato dal sangue, conscio che fosse giunta la sua ora. 
Lei osservava la scene da dietro pesanti tende, lassù, dalla torre dove era rinchiusa, ferita nel corpo e nell'anima ma ancora col cuore intatto per il suo Cavaliere per il quale temeva la sorte.
Lui percepì la sua presenza e in un ultimo sforzo abbatté la pesante spada sul collo del rivale, staccandogli la testa di netto. Il sangue sprizzò al ritmo degli ultimi battiti di quel cuore malvagio e si rapprese in una pozza scura.
Non era destino che il loro amore potesse vivere. La potente famiglia del conte, imparentato con gli Orsini, giurò vendetta e mise una taglia sulla testa del Cavaliere. Madonna Marozia doveva morire, uccisa sulla pubblica piazza, per decapitazione a causa del suo enorme peccato.
Fu padre Abelardo, impietosito dalla storia che il Cavaliere gli narrò nella notte in cui scomparve assieme ad Alderico, a salvare lei, nascondendola dove si sperava non potessero più trovarla.
Erano passati anni da allora ma la vendetta è gelida e paziente, l'avevano trovata. 
Ser Crisanto sapeva che quella sarebbe stata l'ultima volta che l'avrebbe rivista. Non era più forte e agile come allora e i sicari da battere, troppi.
Alzò gli occhi verso la torre che si ergeva dalla nebbia. Il campanile della chiesa di S. Angelo contava le ore con un rintocco acquoso. Era di nuovo l'alba.
Il Cavaliere guardò il cielo, si fece il segno della croce e disse:
- Andiamo Alderico è giunta l'ora.

Anno Domini 2017 d.c.

Numerosi novelli pellegrini, ogni anno, percorrono i tratti ancora visibili della via Francigena, equipaggiati con scarpe tecnologicamente studiate per il lungo cammino, zaini e navigatori satellitari. Un gruppo, in visita al museo Veientano, ammira i reperti ritrovati nel territorio, risalenti al periodo Etrusco.
Una guida sta loro spiegando la storia dell'ultima acquisizione del museo, da poco ritrovata.
- Durante la manutenzione di uno dei cunicoli etruschi, denominati formae, che servivano d'acquedotto per l'antica città di Veio, nell'attuale località la Selvotta, dove il cunicolo si collega con il fosso degli Olmetti, è stato recentemente ritrovato un gioiello di fine fattura, presumibilmente risalente al secolo XI. Si tratta di una spilla, probabilmente un gioiello devozionale mariano dell'epoca. Si presenta, come potete vedere, come una M arrotondata, sormontata dalla corona mariana. I due archi della lettera, formano due bifore, in mezzo ad una, la figura di Maria inginocchiata, mentre, nell'altra, si staglia l'angelo al momento dell'Annunciazione. Si tratta di fine oreficeria, d'ispirazione bizantina, arricchita da smalti multicolori e pietre preziose. Accanto al gioiello è stato ritrovato parte di un elmo, sempre della stessa epoca, mal conservato, forato nella parte anteriore, probabilmente da un colpo di mazza ferrata, lo si nota dal metallo piegato verso l'interno.
È un ritrovamente di grande interesse storico, soprattutto perché risalente a quel periodo, di cui, in zona, non risultano altri referti.  Per ora è l'unico, posteriore come datazione, a quelli esposti nel museo.





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