A te navigante...

A te navigante che hai deciso di fermarti in quest'isola, do il benvenuto.
Fermati un poco, sosta sulla risacca e fai tuoi, i colori delle parole.
Qui, dove la vita viene pennellata, puoi tornare quando vuoi e se ti va, lascia un commento.

giovedì 7 settembre 2023

Un grido

Nel volto bagnato di tua madre,
dolore e gioia.
Il sapore salato di lacrime e sudore.
Un grido, il suo. 
Un grido, il tuo.
Venisti al mondo,
un respiro,
un vagito alla volta: 
il tuo diritto alla vita.
Erano tempi di regime e gli anni,
numeri romani. 
Saluti a braccia tese, 
fez e camicie nere. 
Correvi sull'erba,
veloce,
felicemente ignara,
rincorrendo farfalle.
La strada è stata lunga,
percorsa con tenacia.
Coraggio e fede: 
le tue armi.
Hai riso fino alle lacrime,
hai pianto lacrime amare. 
Bambini cullati,
vegliati,
cresciuti nel tuo amore immenso,
di madre,
di nonna.
Negli anni,
un poco piegata dal peso della vita.
Pregavi,
con fervore,
sgranando il rosario.
Avanti e indietro,
col fedele bastone,
per quel corridoio,
diventato il tuo ultimo tratto di strada
Un grido,
il tuo.
Un respiro alla volta;
l'ultimo respiro...
E te ne sei andata.

mercoledì 25 novembre 2020

L'uomo con il violino

 



Il cielo era rosso all'orizzonte, riempiva ogni spazio di blu, come un pennello impazzito, sfuggito dalle mani di un pittore maldestro. 

Erano i fuochi che ardevano e distruggevano tutto, dopo l'ennesimo bombardamento. Tutti i sensi ne erano occupati. L'udito aveva dapprima percepito l'arrivo degli aerei, poi le deflagrazioni, il tonfo dei detriti che schizzavano impazziti, come meteore cadute casualmente al suolo, dal cielo, le grida disperate, le sirene d'allarme.

La terra aveva tremato, come se un mostro sotterraneo fosse stato svegliato troppo presto dal suo letargo. Le narici percepivano l'odore di bruciato, di polvere  sottile, che pian, piano ricopriva ogni cosa di bianco. La pelle scottava. La vista era piena di distruzione.

La gente, impazzita dal terrore, correva in ogni direzione, alcuni stringevano tra le braccia bambini inerti, altri, col volto ricoperto di sangue e polvere, avevano il colore della morte. Molti ricercavano i loro cari sotto le macerie, urlavano i loro nomi, piangendo.

Al centro del quartiere bombardato, c'era un'ampia piazza, in gran parte ricoperta dai detriti, che andavano ad ostruire le vie attorno.

Un bambino  piangeva disperato, il volto impastato di lacrime, moccio e polvere, sedeva su quello che rimaneva di una casa. Forse, sua madre, era sotto le macerie, forse,  dispersa e lo stava cercando. Era paralizzato dal terrore. 

Un uomo, al centro della piazza, sembrava uscito da un'altra dimensione. Osservava la scena con una calma apparente, come se lui fosse fuori da quel palcoscenico d'orrori. Sembrava che i suoi occhi stessero soppesando ogni singolo elemento, come un fotografo che vuole rimanere imparziale e registra soltanto l'attimo.

L'uomo però non aveva nessuna macchina fotografica a tracolla. Ben ritto sulle gambe si girava intorno lentamente, le braccia allargate, come un compasso nel disegnare un immaginario cerchio.

Le sue mani, si muovevano a cadenza, dirigeva un'orchestra di morte.

Fece due passi verso il bambino, incerto sul da farsi, poi si avvicinò e lo prese in braccio, cullandolo per calmarlo. Poco più in là, una donna camminava smarrita, tremando. L'uomo le si avvicinò lentamente, e gli tese il bambino, che si era un poco quietato. La donna per istinto lo prese,  ma non era suo figlio. L'uomo proseguì verso quella che era stata la sua casa. Camminava piano, scavalcando a fatica i detriti, pensando a ciò che avrebbe trovato, a chi non avrebbe più ritrovato.

Il dolore suo, di tutti, lo colpì, come un colpo di fucile al cuore e cominciò a singhiozzare. Il suo petto si sollevava e poi cadeva giù, come fosse il suo ultimo respiro. 

Arrivavano con difficoltà i soccorsi, chiedevano silenzio per individuare i sepolti vivi. La gente, però, non smetteva di gridare. 

L'uomo si asciugò le lacrime al vento rovente, raddrizzò le spalle piegate da tanto peso e pensò a cosa potesse fare lui, per far cessare tutto quell'orrore. Era un violinista, avrebbe combattutto nell'unico modo che conosceva: con la musica.

La sua casa era distrutta, rimanevano solo gli stipiti della porta d'entrata, ancora in piedi. Con cautela entrò, e a terra, intatto, come se Dio avesse voluto preservarlo, trovò il suo violino, accanto il corpo inerte di sua moglie. La prese tra le braccia dolcemente, senza più lacrime per piangere.

Prese il violino, uscì a precipizio e tornò sui suoi passi, in mezzo a quella piazza che era il centro del caos. Lì, in piedi, posizionò lo strumento tra il mento e l'orecchio, mentre con l'altra mano teneva l'archetto. Nel battito d'ali dell'angelo della morte, prese a suonare.

Le note, celestiali, correvano nell'aria, lo circondavano,  danzavano lievi, andando a lenire, come  balsamo, i corpi straziati dei morti e il dolore lancinante dei vivi. 

La guerra, la morte che le cammina accanto, alitando sugli uomini il suo orribile fiato, per una volta, furono battuti da uomo che non aveva voluto arrendersi.

lunedì 16 novembre 2020

C'era una volta

 



La sua migliore amica, ai tempi della scuola media, l'aveva conosciuta proprio in classe. Era entrata spaesata, non conosceva nessuno, la scuola si trovava in un quartiere limitrofo, per raggiungerla doveva prendere l'autobus. Ad undici anni le sembrò un'avventura, non era mai uscita dal quartiere, né tanto meno, mai salita su un autubus da sola. 

Nell'androne della scuola, dove erano radunati tutti gli studenti della prima media, si guardava intorno timidamente, disorientata dall'ambiente sconosciuto. Una volta formata la classe ed entrata, una delle professoresse, quella di educazione fisica, le allineò una vicina all'altra per ordine d'altezza e lei si trovò al banco con Maria Rita. La ragazzina, timida anche lei, le rivolse un sorriso un po' tirato. Era longilinea, la magrezza sottolineata ancora di più dal grembiule nero, stretto in vita da una cintura. I capelli corvini  mossi, un po' abboccolati, tenuti in ordine da una fascia rosa. Gli occhi neri, guardarono gli occhi dell'altra, quasi a cercare un conforto. Si piacquero subito le due ragazzine, e a quel banco, insieme, oltre a tenersi per le mani, quasi a stritolarle, durante le interrogazioni, si raccontavano le loro vite, i primi palpiti di cuore, ridendo spensierate.

Carla era tutto l'opposto fisicamente. Cicciottella, portava gli occhiali per uno strabismo che l'aveva afflitta fin dalla più tenera età. Ora il suo sguardo era dritto, ma la vista ancora imperfetta. Capelli castano chiaro, un po' mossi, occhi verdi, dietro le lenti. Aveva un aspetto impacciato, come molte adolescenti di quell'età. Maria Rita era sempre inappetente, durante la ricreazione buttava la merenda nel cestino e a Carla, che aveva sempre fame, sembrava uno spreco davvero mostruoso. 

Il papà di Maria Rita era carabiniere, spesso, la veniva a prendere a scuola in divisa, a Carla metteva soggezione in quell'uniforme nera dalle strisce rosse sui pantaloni. Maria Rita correva spensierata accanto a lui e Carla si ritrovava sola nell'andare a prendere l'autobus, le sembrava veramente che le mancasse una parte di sé. 

Maria Rita aveva un fratello, Piero, maggiore di quattro anni, del quale la ragazzina parlava sempre con la sua amica, le raccontava del suo rapporto con lui, molto stretto ma a volte anche conflittuale, come è spesso tra fratelli. Col tempo Carla aveva imparato a conoscere Piero attraverso Maria Rita. La sorella lo prendeva in giro per la sua cottarella per la vicina di casa, che lei, un po' gelosa, chiamava “la papera”, non si sa bene perché. Anche Piero conobbe Carla attraverso le descrizioni che le faceva la sorella riguardo alla sua amica di scuola, così con il tempo, Piero mandava a Carla, attraverso Maria Rita, dei bigliettini spiritosi, prendendola un po' in giro per avere il cuore impegnato da un certo Alfredo, che abitava in Abruzzo e col quale non aveva mai neanche scambiato un saluto. 

“Ci pensi?”, le diceva Maria Rita, “Se ti sposi mio fratello, diventeremo cognate”. Per lei un legame strettissimo, più che essere amiche. Carla ci rideva su, era una ragazzina e il concetto era più astratto che compreso.

Un giorno la classe delle ragazze fece una gita culturale al museo della Civiltà Romana, anche Piero vi era andato, con la classe del primo liceo. Maria Rita si era data appuntamento col fratello e Carla lo vide per la prima volta. Portava un impermeabile blu, un po' sovrappeso, come lei, un ciuffo di ricci rossi, occhi castani, tanto diverso dalla sorella, una manciata di lentiggini sul naso e sulle gote.

Dopo aver parlato con sua sorella, Piero rivolse un timido ciao a Carla. La ragazzina, vedendo quel ragazzone, che a lei sembrava tanto più vecchio e grande, si sentì piccola,  imbarazzata, lo salutò frettolosamente e non aprì più bocca, benché avesse scambiato con lui battute e bigliettini. Vederselo davanti, però, fu diverso, per lei era quasi un uomo.

La scuola media passò velocemente, nei tre anni le ragazze non si separarono mai. Quando Maria Rita mancava da scuola, Carla si sentiva persa, con le altre non aveva lo stesso rapporto. 

Alle superiori le due ragazze presero strade diverse. Si telefonavano spesso, stavano ore a raccontarsi quello che un tempo si dicevano in classe. Maria Rita frequentava il liceo scientifico, in una classe mista e le raccontava di quel ragazzo a cui piaceva; Carla l'istituto tecnico, ma tutto al femminile e conoscenze maschili non ne aveva. Ogni tanto Carla l'andava a trovare a casa, il loro rapporto era maturato insieme a loro, ormai erano adolescenti cresciute, i discorsi però restavano più o meno sempre gli stessi: le difficoltà a scuola, i voti, le materie ostiche e i ragazzi. Maria Rita aveva un gruppo di amici, qualche volta Carla usciva con loro, vecchie conoscenze delle medie che aveva ritrovato, nuovi amici conosciuti attraverso Maria Rita. In mezzo c'erano sempre i racconti su Piero, che andava all'università, che studiava tutto il giorno, chiuso in camera, dei suoi amici stretti che spesso passavano a trovarlo e che conobbe anche lei. A volte lui usciva dalla camera, con occhi arrossati e l'aria stanca, e veniva a salutarla in camera della sorella, due parole scambiate e spariva di nuovo. Carla lo considerava quasi un fratello maggiore, ma ne aveva sempre soggezione, tutti lo descrivevano come il cervellone di casa. Studiava fisica alla Sapienza, una materia che a lei, era sempre sembrata  incomprensibile e a scuola faticava a capirla. Dopo la maturità, le ragazze fecero scelte diverse, Maria Rita, sulle orme del fratello s'iscrisse all'università. Subiva l'aria di adorazione che tutti avevano per lui, probabile che si sentisse messa in ombra, alla fine ci mise qualche anno di troppo per laurearsi in scienze naturali. Carla invece non volle proseguire, troppo emotiva, pensava di non essere all'altezza per sostenere gli esami, suo padre, poi, non approvava quello che a lei sarebbe piaciuto. Lei amava molto le materie letterarie, l'arte, la cucina, ma lui insisteva col dire che bisognava scegliere qualcosa di adeguato agli studi intrapresi, che con quelle materie non ci avrebbe fatto nulla.

Qualche anno dopo finì per lavorare in una fotocomposizione, a modo suo, si prese una piccola rivincita, lavorare nel campo dell'editoria la metteva in contatto con la materia che aveva sempre amato, i libri e la letteratura. In quegli anni le due ragazze ripresero a frequentarsi con assiduità. 

Piero spesso si univa con il trio dei suoi amici più stretti, usciva tutti insieme, dopo lunghe trattative sul luogo in cui andare. Ognuna delle due ebbe le sue storie amorose. Per Carla durò poco e finì in un nulla. Maria Rita invece si immerse in un rapporto che durò anni ma non portò da nessuna parte. 

In un particolare momento della vita di Carla, quando era sola e senza nessuna voglia, al momento, di immergersi in una nuova relazione, l'amicizia tra lei e Piero si consolidò. Pian, piano l'uno scoprì l'altra, due persone che avevano sempre scherzato, si erano prese in giro, avevano avuto relazioni con altri, scoprirono di avere moltissimo in comune. Piero ormai laureato in fisica, cercava con fatica d'inserirsi nell'ambiente della ricerca e cominciò a lavorare al Cern di Ginevra. Spariva settimane, poche erano le occasioni per incontrarsi in comitiva.

Carla a volte restava con Maria Rita, a casa di lei, a chiacchierare, a volte vedeva altri amici  e uscivano tutti insieme. In quel periodo Piero cambiò atteggiamento nei suoi confronti. Si fece più vicino, l'ascoltava con trasporto, le faceva piccoli regali. Anche lei pensava a lui sempre più spesso, era un poco gelosa e non voleva ammetterlo neanche con sé stessa.

 Al capodanno con lui non era andata, lui aveva insistito, c'era una festa dove andava con i suoi inseparabili amici, ma i suoi genitori era molto severi e non acconsentirono a lasciarla andare, altri tempi, altra mentalità. Una domenica andarono al cinema, era il giorno della befana, c'era lui, uno dei suoi amici ma Maria Rita non andò. Carla si trovò al cinema, tra i due. Il film era su Lancilotto e Ginevra, c'erano scene cruente, lei finse di spaventarsi e gli prese la mano. Con molta lentezza i giorni passarono, lui partiva e tornava, il tempo lei lo trascorreva a chiedersi se il loro rapporto avrebbe potuto diventare qualcosa di più e ne era spaventata. Si era al punto che mancava un piccolo passo, per cambiare totalmente la vita di entrambi.

Dopo uno dei rientri di lui da Ginevra, si rividero un pomeriggio. Lei aveva citofonato a casa sua, con la scusa di cercare Maria Rita, che sapeva essere fuori, ma con la speranza che ci fosse lui, c'era.

L'accompagnò a casa a piedi, camminavano lentamente, l'emozione e il nervosismo di entrambi, si tagliavano con il coltello. Cercavano di scherzare, poi lui glielo disse, non esplicitamente, con timidezza le fece capire che l'amava. Lei aveva le mani ghiacciate, avrebbe voluto gridare che anche lei provava lo stesso, ma le uscì una frase che lo fece ridere. Lei disse: “Che ne sarà della nostra amicizia se ci fidanziamo? Se andasse male perderei un amico speciale”. Lui capì che lei era terrorizzata di affrontare il passo, e l'abbracciò. “Me lo dai almeno un bacio?”. Lei gli sfiorò la guancia e scappò via. 

Il grande passo era fatto. Due anni dopo si sposarono, il sogno della sorella di diventare cognate si era concretizzato, la vita però, non va mai come ci si aspetterebbe e con il tempo le due grandi amiche e cognate divennero due estranee, passando da liti e rancori, alla totale indifferenza.

Piero e Carla hanno avuto un figlio, sono ancora insieme più complici e legati che mai, dopo quasi quarant'anni.

mercoledì 28 ottobre 2020

Un rito secolare

 



E viene il giorno. Il sole riscalda appena la terra bagnata di rugiada. Una sottile nebbiolina si stiracchia sull'erba e sulle cime degli alberi. Una gocciolina d'acqua brilla, illuminandosi in un sorriso, prima di evaporare.

Da millenni il giorno della raccolta delle  olive è un rito, un lavoro duro, che odora di aspro e di sudore. Col passare dei secoli la tecnologia è venuta un poco in aiuto ma gli odori, i gesti sono gli stessi.

La pianta, carica delle drupe succose e lucide, piega i rami, quasi volesse porgerti quel fardello che essa non vuole più portare.

Si inizia al sorgere del sole. Le reti vengono gettate per una pesca miracolosa, dal frutto uscirà fuori oro liquido.

Si spargono le reti, si tirano come un immenso lenzuolo da stendere sul giaciglio erboso, sotto l'albero. Le dita passano tra i rami, pettinandone la chioma, e pian piano, con un piccolo rumore sordo le gocce nere invadono il suolo. Con le macchine elettriche, che aiutano il lavoro umano, si cerca di velocizzare, ma le spalle vibrano al peso della macchina, il lungo braccio si allunga verso i rami alti, non servono più le antiche scale di legno, i tascapane da riempire a manciate, le vesciche sulle dita delle mani nude che scorrevano tra ramo e ramo, si formavano per usura. Finalmente, al suolo cade una grandine di chicchi neri. Te li ritrovi negli stivali, nelle tasche, i capelli intrecciati a foglie argentee. La pianta tira un sospiro di sollievo, si stiracchia, finalmente libera dalla zavorra. É ora di ritirare la rete. Si alza da terra,  lentamente, dai bordi, si guidano le drupe come soldati in battaglia, tutte raggruppate insieme. Sono pesanti, non ci si aspetterebbe di averne così tante, erano tutte sparse qua e là, come puntini su una mappa. Il vento porta l'odore aspro, mediterraneo, nell'aria. Un profumo antico di lampade dalla flebile e tremolante luce, di balsami per le matrone romane, di manicaretti cucinati con amore, di calorie contate con riluttanza.

La pesca è stata abbondante, due braccia non bastano per alzare la zavorra, ci si fa vicini, ci si  danno istruzioni reciproche, un poco a destra, un poco a sinistra e via.  Il rumore risuona sordo, le olive cadono nella cassetta, la prima di una lunga serie, soddisfazione di un lavoro ben fatto. 

Si raduna la rete, la si trascina di nuovo e via, con un altra pianta, ancora e ancora, fino all'imbrunire, quando l'uomo e il sole, ormai stanchi, hanno bisogno di riposo. 

Dopo tanto lavoro, a volte di giorni, finalmente si va alla macinatura. Nel frantoio è un via vai di persone, di enormi casse, dove ognuno raduna le proprie olive e aspetta pazientemente che tocchi a lui. 

Si pesano, si rovesciano nella vasca che le lava e lascia a galla le foglie residue.

Il rumore assordante della mola riempie le orecchie, nell'aria un odore aspro e pungente, piccante oserei dire. La macchina tritura e spreme: è giunta l'ora. Un flusso di liquido color oro, fosforescente, riempe il recipiente, un tempo le giare in terracotta, ora domina il freddo e sterile acciaio.

 Goccia, a goccia scende un filo sottile; esso lega presente, passato e futuro. L'emozione sale, è come essere collegati alla madre terra che ti ha voluto fare un regalo, perché a volte è avara e non sempre elargisce. Se si adombra, per il male che le facciamo, ci nega inesorabilmente i suoi frutti, come madre severa. Noi, come figli disobbedienti, puntiamo i piedi, lei si adira con noi sempre più spesso. 

È notte fonda, i grilli sono stanchi di frinire, la luna pallidamente occhieggia, illuminando timidamente la strada del ritorno. Anche quest'anno abbiamo l'olio buono e niente ripaga la grande fatica più che assaporarne lentamente l'aroma pungente e piccante, un poco amaro, su un piatto di spaghetti fumanti: il grano e l'oliva i doni del Mediterraneo.


mercoledì 10 giugno 2020

I gatti del Verano




Solennità e silenzio, è questo che affiora nel primo istante che se ne varca la soglia. I cipressi centenari si ergono ritti come colonne, sorreggendo la volta del cielo. Lungo i viali, erba poco tagliata, in alto nel cielo si sente lo stridìo delle rondini che si rincorrono, ignoranti e vagabonde le si vorrebbe zittire, per non distirturbarli, i  morti.

È una giornata estiva, il caldo fa attaccare alla pelle la camicia bagnata di sudore e nuvole di zanzare impazzite, bramano succhiare la linfa dei pochi vivi che si aggirano tra le tombe.
Il Verano è un luogo che racchiude la Storia,  le storie di tanti romani, vicini di tomba, lontani nel tempo che ora sguazzano nell'eternità e magari sorridono dei  nostri affanni, ben sapendo che il tempo spazza e livella tutto.
Cammino, lo scricchiolio dei miei passi sul viale mi rammenta il motivo della mia presenza.
L'odore dei fiori marciti, crea un senso di nausea. Fiori disseccati stanno lì, immersi in acque pudride, da mesi. Presi dal vorticare della vita, ci dimentichiamo di loro, che un tempo ci hanno amato, che abbiamo amato. Il dolore si attenua, e piano scivola nella memoria nostalgica, ci sarà tempo per una visita, ma non ora. E loro sono lì, soli, che ci guardano in immagini ferme su ceramica. 
Mi soffermo e leggo nomi sconosciuti, date quasi cancellate, immagino cosa potessero fare in vita, chi fossero, i loro legami di affetto, li faccio rivivere pur non conoscendoli.
Quante gioie? Quanti dolori? Perché sono morti, anche in tenera età? Domande senza risposta. Vicino alla tomba di mio padre, ce n'è una dimenticata da tempo. Un uomo ucciso e torturato dagli abissini, in un passato la cui storia, neanche affiora più, presi dal fagocitare notizie del presente che si bruciano in un attimo. La sua storia riassunta in poche parole scolpite sulla lapide, la sua vita ormai sconosciuta, come lui. Nessuno passa più ad onorarne la memoria, mani pietose mettono un fiore, per non lasciarlo solo, per carità cristiana, abbandonato all'oblio. 
In mezzo all'immobilità eterna, eccoli, li scorgi solitari, sdraiati al sole, a riscaldarsi sul marmo assolato.
I gatti del Verano, felini dai manti multicolore, pigri, indolenti, ti guardano passare sbadigliando. Chi si pulisce il pelo con perizia, fermandosi a zampa alzata al tuo passaggio, indeciso se scappare o continuare. Due occhi di giada che seguono i tuoi passi. Animali magici, silenziosi e felpati, regali nel loro incedere, ti ignorano sorvegliando. Guardiani di povere anime, di corpi ormai polverizzati, li rispettano, li onorano della loro presenza. 
Qualcuno, più socievole ti viene incontro a coda ritta, si struscia, chiede una carezza e del cibo. Non miagola, non  vuole violare quel silenzio sacro.
Altri schivi e timorosi si scansano, si alzano infastiditi, con grande dignità si spostano in altre tombe, dove l'uomo vivo, non passa quasi mai. 
Sono loro i padroni del luogo, compagni fedeli di uomini ormai eterni. Indipendenti, sdegnosi, a volte ruffiani nell'elemosinare una manciata di croccantini. 
Forse loro vedono i nostri morti, si dice abbiano un sesto senso. La vecchia signora, di due secoli fa, che si sposta avanti indietro sul dondolo mentre fa la calza, ormai da duecento anni, il gatto che le siede accanto, adorante. Li immagino così, io, dalla fervida fantasia, riportando in vita lei, donando poteri sovrannaturali al gatto, che si gode l'assolata giornata estiva, infischiandosene dei vivi, che passano e dei morti che restano.
Non c'è passato, non c'è futuro nel loro vivere, c'è solo il presente.

lunedì 20 aprile 2020

Hashtag







In un periodo difficile come questo, la scrittura dovrebbe essere d'aiuto, un'evasione dalla realtà buia in cui ci troviamo, da cui non si sa, se mai riusciremo a scorgere un barlume di luce.
Guardo il foglio, bianco, e i pensieri non sono ordinati, ronzano come api operose, ma non si organizzano per uscire. Quel bianco acceca in un deserto di parole mozzate. Troppe parole udite e troppe lette, in un vortice che tocca tutta la rosa dei venti, da ogni direzione e finisce per asciugarne il significato, lasciando al loro passaggio soltanto un vuoto.
Giornata grigia di pioggia d'aprile, lieve acquerugiola primaverile che non fa che acuire l'ineluttabilità delle nostre effimere esistenze. La natura ci rigetta e si cura da sola, siamo noi il virus da combattere e col virus incoronato ci annienta. 
Guardo il tricolare intriso d'acqua, non sventola più ma penzola floscio dai balconi, insieme agli arcobaleni e gli auguri di un futuro migliore, scoloriti dal tempo. Lontano il ricordo dei canti dai balconi, il guardarci negli occhi da un palazzo all'altro, per infonderci quel coraggio che nessuno aveva davvero. Abbiamo tirato fuori la spavalderia dei pavidi, un patriottismo di necessità, ma era la paura ancestrale della morte a farlo riesumare.
Stiamo a casa, ce lo ripetono incessantemente, ci mettono davanti un hashtag, quel cancelletto informatico, ha uno scopo specifico, ma se ne abusa, così la frase: “Restate a casa” col cancelletto davanti, ormai è parte integrante del concetto. Lo si legge sui tabelloni del Raccordo Anulare, dove erano evidenziati  i tempi di attesa per le code chilometriche e gli incidenti stradali. 
I cancelletti si moltiplicano: restiamo uniti, ce la faremo, andrà tutto bene.
L'umore però scende e gli slogan non reggono più. Boccheggiamo, dentro le mascherine, sui balconi a bere sorsate d'aria, come se rientrando dentro le nostre dimore, dovessimo stare in apnea e battere il record d'immersione.
Mi è capitato di uscire dalla città, me lo consentiva un'ordinanza fresca di proclama. La macchina strisciava su un nastro d'asfalto, tra curve e rettilinei, sola, sembrava la scena di un film apocalittico. La realtà ci ha colpiti come una pallottola in corsa. Un mattino tutto il meccanismo oliato, noi, burattini in un mondo prestabilito, ci rincorrevamo impazziti, poi, è apparso, lui, lo sterminatore.
Non ci abbiamo voluto credere. Non a noi, ma soprattutto perché a noi? Lui, silenzioso, di soppiatto si è comportato da invasore, un invasore di corpi. Il meccanismo si è inceppato fino a fermarsi.
Nella classica fantascienza anni cinquanta, i corpi venivano invasi dagli alieni, ne “L'invasione degli ultracorpi” di Jack Finney. Qui, si tratta di una specie autoctona che disturbata nel suo habitat, ha deciso di lasciarci parte di sé, o, se vogliamo vederla da un punto di vista letterario, di annientarci, per liberarsi di noi: una dichiarazione di guerra.
Avevo pensato di traslare questa orrenda realtà in un racconto, simile, con gli alieni invasori, gli eroi e tutto il cliché classico, ma poi niente, pagina bianca, di un bianco abacinante come era solita dire la mia insegnante di storia dell'arte che per descrivere il colore, aveva un aggettivo soltanto.
 Ci sono in mezzo, ci siamo tutti in mezzo, il mondo intero, senza nessun distinguo, la realtà è indigesta.
Non si può plasmare il nostro pensiero, le nostre abitudini su un nemico invisibile, agguerrito e mutevole. La vita non sarà più quella di una volta, senza cancelletto davanti, ma altra frase ripetuta ad libitum, scelta tra un campionario limitato di slogan. Come sarà allora? Ci occorre una certezza a cui aggrapparsi, siamo in balia di onde alte e perigliose. Le risposte viaggiano nel vento, da tutte le direzioni, diventano non risposte, perché alla fin fine, nessuno ha il coraggio di dire che non lo si sa. Il mondo nuovo, il cambiamento che può essere positivo, che dal letame può nascere un fiore, per me sono tutti hashtag senza frase. Da che mondo è mondo, e l'umanità ne ha davvero attraversati tanti di eventi nefasti, non si è mai visto l'uomo cambiare positivamente dopo eventi di tali portata. Ad epidemie è seguita carestia, dopo, guerre. 
Fuori continua a piovere e il mio umore si è liquefatto in una pozzanghera limacciosa. Butto tutti gli  hashtag nel cestino. Andrà come deve andare. Le mie priorità si sono ridimensionate, ora sogno di rimanere in salute e di poter uscire. Di una cosa sono sicura, quando tutto questo sarà alle spalle, per un po', solo per un po', tutto quello che è sempre stato dato per scontato, come la libertà, avrà un sapore tutto nuovo.

sabato 28 marzo 2020

Tastierista di fotocomposizione


Un punzone (a sinistra) e la matrice da lui prodotta (a destra).

Gli occhi scorrevano sulle parole, le dita battevano le lettere, ad una, ad una, così velocemente che qualche lettera restava impigliata nel tasto. Sullo schermo nero, il testo, le frasi, la punteggiatura, si formavano brillando di un verde elettrico. Un leggio sulla destra conteneva un pacchetto di fogli sovrapposti, dattiloscritti, segnati da indicazioni in rosso. Garamond, corpo 10, interlinea 11. I titoli in neretto, le parole particolari in corsivo e via. Tic, Tic, a 3 o 400 battute al minuto, una passeggiata. Era un po' tornare indietro nel tempo, il ricordo delle lezioni di dattilografia impresse nella memoria. I tasti di riferimento, per la tastiera cieca, asdf, mano sinistra, jklm, mano destra. E via a ripetere all'infinito: affama la massa, la mamma fa la salsa, tutte parole che contenevano quelle lettere, senza spostare le dita. Dettati con il cronometro in mano, quando c'erano ancora le vecchie macchine meccaniche e più avanti quelle elettriche, e il ticchettare sui tasti era un rumore stordente. Quel tempo era passato. Il ticchettìo sordo era un sottofondo, ora, mentre gli occhi correvano velocemente sulle parole, si chiacchierava del più e del meno, del tempo, quello sempre, delle proprie famiglie, dei figli, di episodi di vita privata. Come in ogni raggruppamento umano si creavano amicizie, simpatie, antipatie, invidie e maldicenze e qualche timido corteggiamento. La mattina si accendeva lo schermo, ci si rodava le mani, nel senso che se erano gelate, le sgranchivamo e poi via a battere velocemente, pagine e pagine di testo. Nel 1981 sono stata assunta in una fotocomposizione gestita da vari soci. Oggi è una casa editrice di media importanza nel campo dell'editoria, ma allora era una fotocomposizione alle prime armi. Cosa era una fotocomposizione? Ho imparato a memoria la spiegazione, allora nessuno la conosceva, un lavoro avveniristico per quell'epoca, ora archeologico e scomparso. Per spiegarlo devo fare un piccolo preambolo sulla stampa. In passato per preparare una pagina da stampare, si allineavano caratteri di stampa ognuno su un piombo, diciamo tipo timbro, per chi non sa nulla al riguardo. Tutte le lettere venivano allineate fino a formare la pagina da mandare in stampa. Il procedimento è vario ma io mi fermo qui. Ci voleva pazienza e vista buona, abilità manuale per preparare la pagina velocemente, come per i quotidiani ad esempio. In tempi un poco più recenti fu inventata una macchina, la linotype, che attraverso una tastiera sollevava i piombi e li posizionava nello stampo. Alleggerì di molto la velocità di composizione, si batteva quasi come su una macchina da scrivere. La tecnologia però andò ulteriormente avanti, prima dell'avvento dei personal computer, la fotocomposizione fu lo strumento tecnologico che permise di superare la stampa con i piombi. Si scriveva su un rudimentale computer, ricordate gli schermi neri con le lettere fosforescenti verdi? Nei primi anni ottanta erano così, starci ore davanti ti rovinava la vista. Invece di scegliere la grandezza del piombo, in base al carattere del testo, si mettevano codici di programmazione, le prime rudimentali programmazioni di stampa, un codice diverso per la grandezza del carattere, (corpo in termine tecnico), l'interlinea, il tipo di stile, ad esempio Garamond, Times, corsivo, neretto. Ora con word è una passeggiata, allora veniva fuori uno schermo di codici con le parole mescolate in mezzo, all'inizio non ci capivo nulla. Non esistevano scuole per imparare il mestiere, l'ho fatto sul campo con l'aiuto di un collega esperto, di una pazienza certosina, l'avrò tempestato centinaia di volte con domande, le mie insicurezze erano al culmine, lui non si è mai spazientito. Gli sono ancora riconoscente per essere stato il mio maestro e avermi insegnato le regole tipografiche e tantissime altre cose, perché io ho dovuto imparare anche le regole di tipografia assieme alla programmazione tipografica. Certo ero giovane, ma è stato molto difficile partire da zero e dover comunque assicurare una produzione di lavoro. La fotocomposizione era in un locale di palazzo Berardi in via del Gesù. Nel cortile uno degli orologi ad acqua, gemello di quello di villa Borghese, scandiva il tempo attraverso il gorgogliare delle cascatelle della fontana. Ogni tanto uscivamo per andare al bar, le pause caffè erano il nostro sgrancirci le gambe e riposare le dita. I baristi alla fine della via, era ormai amici di tutti noi. Il solito per favore, la frase ricorrente, come nei film. Così tra cappuccini, cornetti, pizzette riscaldate e spremute d'arancia, sono lievitata di dieci chili, per giunta seduta otto ore al giorno. Si pagava a turno, si usciva a gruppetti di due o tre. In fondo alla fine eravamo in pochi. Sono stati anni spensierati a ripensarci ora. Tutti giovani più o meno della stessa età, qualcuno un po' più grande. Tutti della stessa generazione, avevamo interessi in comune e idee politiche uguali. Si parlava di tutto, perché ormai occhi e mani andavano da sole, oppure si ascoltava la radio, io ero una patita di radio Subasio. D'estate col ventilatore direzionato adosso, faceva molto caldo nel locale, d'inverno, coi mezzi guanti, le mani congelavano. Venivano i clienti che portavano le correzioni d'apportare, segnate in rosso, anche qui ci sono regole specifiche da seguire, ma spesso non le seguivano e venivano le dolenti note: l'interpretazione dei segni mal tracciati e fantasiosi. -Mario, che significa? - Una delle mie tante richieste al collega che mi avevano affiancato. Lui, paziente a decifrare, nonostante avesse il suo di lavoro da svolgere. Mario aveva lavorato in una tipografia fin da giovanissimo. Aveva imparato il mestiere, sapeva usare i caratteri di piombo e mi spiegava i concetti con analogie, facendomi immaginare le cose in modo materiale. Le lettere hanno “la spalla” lo spazio bianco intorno, sono come cubi su cui è impressa la lettera, lo stesso concetto lo trovi qui, la devi calcolare. Aveva il suo bel da fare con me. Mi raccontava spesso di suo figlio, allora seienne, che poi conobbi assieme alla moglie. Noi due lavoravamo in un turno di sei ore, alternandoci ogni due settimane, tra mattina e pomeriggio. L'altro turno era composto da Sasà, napoletana verace, e Maurizio anche lui partenopeo, meno espansivo e più introverso di lei, grandi amici, erano stati assunti insieme. Di lui ricordo i capelli lunghi ricci e i baffoni spioventi. Li vedevo solo al cambio turno. Poi c'erano i “capi”, i soci. Uno in particolare, Paolo, il nipote del socio di maggioranza, detto da noi 51%, nostro coetaneo, ma tenuto a distanza per via del ruolo, a volte ne soffriva, perché emarginato anche dai soci, più anziani di una decina d'anni, lo ritenevano tutti il cocco dello zio. Per lui deve essere stato un ruolo difficile. Nel tempo furono assunte altre persone e l'iniziale atmosfera amichevole, mutò. Sparirono i turni e si passò alle otto ore con pausa pranzo. D'estate si consumava velocemente un panino e poi a prendere il sole al Pantheon, a chiacchierare con Sasà, a fare due passi. Pian, piano cambiò anche un po' il lavoro, e io da tastierista passai ad impaginare riviste e libri. Altre regole da imparare, ad esempio: mai iniziare una pagina con una riga vedova. Una frase breve due o tre parole che chiudono un periodo, iniziato alla pagina precedente. Esteticamente è un pugno in un occhio. Ho sempre amato leggere, fin da bambina e lì ho avuto occasione di spaziare tra materie diverse, leggere libri per lavoro, per una lettrice come me, è stato molto piacevole. Un giorno mentre seguivo il testo da battere, fui presa dal contenuto, si parlava di una malattia misteriosa, nuova, che causava sintomi particolari, come il sarcoma di Kaposi e una sindrome da immonodeficienza di cui non conoscevano nulla, l'AIDS, divenuta tristemente nota negli anni a venire. A volte toccava scrivere testi in lingue straniere, passi per l'inglese che avevo studiato a scuola, il difficile era battere i testi in tedesco, si cercava di scrivere velocemente lettera, per lettera, senza capirci un accidente e al ritorno delle correzioni, erano dolori. Ci ho lavorato per sette anni, poi la vita è andata avanti e io per la mia strada, di moglie e madre. La prima a cui ho annunciato di aspettare un figlio è stata Sasà, un giorno di giugno, seduta sotto la fontana davanti al Pantheon. Di lì a poco sarebbe cambiata tutta la mia vita, e quella manciata d'anni che allora mi sembrava lunga, divenne sempre più un lontano ricordo a cui ogni tanto ripenso con un po' di rimpianto, più che altro per la gioventù perduta. Quando ci sei dentro non pensi mai a quanto effimera e preziosa sia, te ne accorgi quando l'hai persa.