Pensieri in chiaro scuro
A te navigante...
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giovedì 7 settembre 2023
Un grido
mercoledì 25 novembre 2020
L'uomo con il violino
Il cielo era rosso all'orizzonte, riempiva ogni spazio di blu, come un pennello impazzito, sfuggito dalle mani di un pittore maldestro.
Erano i fuochi che ardevano e distruggevano tutto, dopo l'ennesimo bombardamento. Tutti i sensi ne erano occupati. L'udito aveva dapprima percepito l'arrivo degli aerei, poi le deflagrazioni, il tonfo dei detriti che schizzavano impazziti, come meteore cadute casualmente al suolo, dal cielo, le grida disperate, le sirene d'allarme.
La terra aveva tremato, come se un mostro sotterraneo fosse stato svegliato troppo presto dal suo letargo. Le narici percepivano l'odore di bruciato, di polvere sottile, che pian, piano ricopriva ogni cosa di bianco. La pelle scottava. La vista era piena di distruzione.
La gente, impazzita dal terrore, correva in ogni direzione, alcuni stringevano tra le braccia bambini inerti, altri, col volto ricoperto di sangue e polvere, avevano il colore della morte. Molti ricercavano i loro cari sotto le macerie, urlavano i loro nomi, piangendo.
Al centro del quartiere bombardato, c'era un'ampia piazza, in gran parte ricoperta dai detriti, che andavano ad ostruire le vie attorno.
Un bambino piangeva disperato, il volto impastato di lacrime, moccio e polvere, sedeva su quello che rimaneva di una casa. Forse, sua madre, era sotto le macerie, forse, dispersa e lo stava cercando. Era paralizzato dal terrore.
Un uomo, al centro della piazza, sembrava uscito da un'altra dimensione. Osservava la scena con una calma apparente, come se lui fosse fuori da quel palcoscenico d'orrori. Sembrava che i suoi occhi stessero soppesando ogni singolo elemento, come un fotografo che vuole rimanere imparziale e registra soltanto l'attimo.
L'uomo però non aveva nessuna macchina fotografica a tracolla. Ben ritto sulle gambe si girava intorno lentamente, le braccia allargate, come un compasso nel disegnare un immaginario cerchio.
Le sue mani, si muovevano a cadenza, dirigeva un'orchestra di morte.
Fece due passi verso il bambino, incerto sul da farsi, poi si avvicinò e lo prese in braccio, cullandolo per calmarlo. Poco più in là, una donna camminava smarrita, tremando. L'uomo le si avvicinò lentamente, e gli tese il bambino, che si era un poco quietato. La donna per istinto lo prese, ma non era suo figlio. L'uomo proseguì verso quella che era stata la sua casa. Camminava piano, scavalcando a fatica i detriti, pensando a ciò che avrebbe trovato, a chi non avrebbe più ritrovato.
Il dolore suo, di tutti, lo colpì, come un colpo di fucile al cuore e cominciò a singhiozzare. Il suo petto si sollevava e poi cadeva giù, come fosse il suo ultimo respiro.
Arrivavano con difficoltà i soccorsi, chiedevano silenzio per individuare i sepolti vivi. La gente, però, non smetteva di gridare.
L'uomo si asciugò le lacrime al vento rovente, raddrizzò le spalle piegate da tanto peso e pensò a cosa potesse fare lui, per far cessare tutto quell'orrore. Era un violinista, avrebbe combattutto nell'unico modo che conosceva: con la musica.
La sua casa era distrutta, rimanevano solo gli stipiti della porta d'entrata, ancora in piedi. Con cautela entrò, e a terra, intatto, come se Dio avesse voluto preservarlo, trovò il suo violino, accanto il corpo inerte di sua moglie. La prese tra le braccia dolcemente, senza più lacrime per piangere.
Prese il violino, uscì a precipizio e tornò sui suoi passi, in mezzo a quella piazza che era il centro del caos. Lì, in piedi, posizionò lo strumento tra il mento e l'orecchio, mentre con l'altra mano teneva l'archetto. Nel battito d'ali dell'angelo della morte, prese a suonare.
Le note, celestiali, correvano nell'aria, lo circondavano, danzavano lievi, andando a lenire, come balsamo, i corpi straziati dei morti e il dolore lancinante dei vivi.
La guerra, la morte che le cammina accanto, alitando sugli uomini il suo orribile fiato, per una volta, furono battuti da uomo che non aveva voluto arrendersi.
lunedì 16 novembre 2020
C'era una volta
La sua migliore amica, ai tempi della scuola media, l'aveva conosciuta proprio in classe. Era entrata spaesata, non conosceva nessuno, la scuola si trovava in un quartiere limitrofo, per raggiungerla doveva prendere l'autobus. Ad undici anni le sembrò un'avventura, non era mai uscita dal quartiere, né tanto meno, mai salita su un autubus da sola.
Nell'androne della scuola, dove erano radunati tutti gli studenti della prima media, si guardava intorno timidamente, disorientata dall'ambiente sconosciuto. Una volta formata la classe ed entrata, una delle professoresse, quella di educazione fisica, le allineò una vicina all'altra per ordine d'altezza e lei si trovò al banco con Maria Rita. La ragazzina, timida anche lei, le rivolse un sorriso un po' tirato. Era longilinea, la magrezza sottolineata ancora di più dal grembiule nero, stretto in vita da una cintura. I capelli corvini mossi, un po' abboccolati, tenuti in ordine da una fascia rosa. Gli occhi neri, guardarono gli occhi dell'altra, quasi a cercare un conforto. Si piacquero subito le due ragazzine, e a quel banco, insieme, oltre a tenersi per le mani, quasi a stritolarle, durante le interrogazioni, si raccontavano le loro vite, i primi palpiti di cuore, ridendo spensierate.
Carla era tutto l'opposto fisicamente. Cicciottella, portava gli occhiali per uno strabismo che l'aveva afflitta fin dalla più tenera età. Ora il suo sguardo era dritto, ma la vista ancora imperfetta. Capelli castano chiaro, un po' mossi, occhi verdi, dietro le lenti. Aveva un aspetto impacciato, come molte adolescenti di quell'età. Maria Rita era sempre inappetente, durante la ricreazione buttava la merenda nel cestino e a Carla, che aveva sempre fame, sembrava uno spreco davvero mostruoso.
Il papà di Maria Rita era carabiniere, spesso, la veniva a prendere a scuola in divisa, a Carla metteva soggezione in quell'uniforme nera dalle strisce rosse sui pantaloni. Maria Rita correva spensierata accanto a lui e Carla si ritrovava sola nell'andare a prendere l'autobus, le sembrava veramente che le mancasse una parte di sé.
Maria Rita aveva un fratello, Piero, maggiore di quattro anni, del quale la ragazzina parlava sempre con la sua amica, le raccontava del suo rapporto con lui, molto stretto ma a volte anche conflittuale, come è spesso tra fratelli. Col tempo Carla aveva imparato a conoscere Piero attraverso Maria Rita. La sorella lo prendeva in giro per la sua cottarella per la vicina di casa, che lei, un po' gelosa, chiamava “la papera”, non si sa bene perché. Anche Piero conobbe Carla attraverso le descrizioni che le faceva la sorella riguardo alla sua amica di scuola, così con il tempo, Piero mandava a Carla, attraverso Maria Rita, dei bigliettini spiritosi, prendendola un po' in giro per avere il cuore impegnato da un certo Alfredo, che abitava in Abruzzo e col quale non aveva mai neanche scambiato un saluto.
“Ci pensi?”, le diceva Maria Rita, “Se ti sposi mio fratello, diventeremo cognate”. Per lei un legame strettissimo, più che essere amiche. Carla ci rideva su, era una ragazzina e il concetto era più astratto che compreso.
Un giorno la classe delle ragazze fece una gita culturale al museo della Civiltà Romana, anche Piero vi era andato, con la classe del primo liceo. Maria Rita si era data appuntamento col fratello e Carla lo vide per la prima volta. Portava un impermeabile blu, un po' sovrappeso, come lei, un ciuffo di ricci rossi, occhi castani, tanto diverso dalla sorella, una manciata di lentiggini sul naso e sulle gote.
Dopo aver parlato con sua sorella, Piero rivolse un timido ciao a Carla. La ragazzina, vedendo quel ragazzone, che a lei sembrava tanto più vecchio e grande, si sentì piccola, imbarazzata, lo salutò frettolosamente e non aprì più bocca, benché avesse scambiato con lui battute e bigliettini. Vederselo davanti, però, fu diverso, per lei era quasi un uomo.
La scuola media passò velocemente, nei tre anni le ragazze non si separarono mai. Quando Maria Rita mancava da scuola, Carla si sentiva persa, con le altre non aveva lo stesso rapporto.
Alle superiori le due ragazze presero strade diverse. Si telefonavano spesso, stavano ore a raccontarsi quello che un tempo si dicevano in classe. Maria Rita frequentava il liceo scientifico, in una classe mista e le raccontava di quel ragazzo a cui piaceva; Carla l'istituto tecnico, ma tutto al femminile e conoscenze maschili non ne aveva. Ogni tanto Carla l'andava a trovare a casa, il loro rapporto era maturato insieme a loro, ormai erano adolescenti cresciute, i discorsi però restavano più o meno sempre gli stessi: le difficoltà a scuola, i voti, le materie ostiche e i ragazzi. Maria Rita aveva un gruppo di amici, qualche volta Carla usciva con loro, vecchie conoscenze delle medie che aveva ritrovato, nuovi amici conosciuti attraverso Maria Rita. In mezzo c'erano sempre i racconti su Piero, che andava all'università, che studiava tutto il giorno, chiuso in camera, dei suoi amici stretti che spesso passavano a trovarlo e che conobbe anche lei. A volte lui usciva dalla camera, con occhi arrossati e l'aria stanca, e veniva a salutarla in camera della sorella, due parole scambiate e spariva di nuovo. Carla lo considerava quasi un fratello maggiore, ma ne aveva sempre soggezione, tutti lo descrivevano come il cervellone di casa. Studiava fisica alla Sapienza, una materia che a lei, era sempre sembrata incomprensibile e a scuola faticava a capirla. Dopo la maturità, le ragazze fecero scelte diverse, Maria Rita, sulle orme del fratello s'iscrisse all'università. Subiva l'aria di adorazione che tutti avevano per lui, probabile che si sentisse messa in ombra, alla fine ci mise qualche anno di troppo per laurearsi in scienze naturali. Carla invece non volle proseguire, troppo emotiva, pensava di non essere all'altezza per sostenere gli esami, suo padre, poi, non approvava quello che a lei sarebbe piaciuto. Lei amava molto le materie letterarie, l'arte, la cucina, ma lui insisteva col dire che bisognava scegliere qualcosa di adeguato agli studi intrapresi, che con quelle materie non ci avrebbe fatto nulla.
Qualche anno dopo finì per lavorare in una fotocomposizione, a modo suo, si prese una piccola rivincita, lavorare nel campo dell'editoria la metteva in contatto con la materia che aveva sempre amato, i libri e la letteratura. In quegli anni le due ragazze ripresero a frequentarsi con assiduità.
Piero spesso si univa con il trio dei suoi amici più stretti, usciva tutti insieme, dopo lunghe trattative sul luogo in cui andare. Ognuna delle due ebbe le sue storie amorose. Per Carla durò poco e finì in un nulla. Maria Rita invece si immerse in un rapporto che durò anni ma non portò da nessuna parte.
In un particolare momento della vita di Carla, quando era sola e senza nessuna voglia, al momento, di immergersi in una nuova relazione, l'amicizia tra lei e Piero si consolidò. Pian, piano l'uno scoprì l'altra, due persone che avevano sempre scherzato, si erano prese in giro, avevano avuto relazioni con altri, scoprirono di avere moltissimo in comune. Piero ormai laureato in fisica, cercava con fatica d'inserirsi nell'ambiente della ricerca e cominciò a lavorare al Cern di Ginevra. Spariva settimane, poche erano le occasioni per incontrarsi in comitiva.
Carla a volte restava con Maria Rita, a casa di lei, a chiacchierare, a volte vedeva altri amici e uscivano tutti insieme. In quel periodo Piero cambiò atteggiamento nei suoi confronti. Si fece più vicino, l'ascoltava con trasporto, le faceva piccoli regali. Anche lei pensava a lui sempre più spesso, era un poco gelosa e non voleva ammetterlo neanche con sé stessa.
Al capodanno con lui non era andata, lui aveva insistito, c'era una festa dove andava con i suoi inseparabili amici, ma i suoi genitori era molto severi e non acconsentirono a lasciarla andare, altri tempi, altra mentalità. Una domenica andarono al cinema, era il giorno della befana, c'era lui, uno dei suoi amici ma Maria Rita non andò. Carla si trovò al cinema, tra i due. Il film era su Lancilotto e Ginevra, c'erano scene cruente, lei finse di spaventarsi e gli prese la mano. Con molta lentezza i giorni passarono, lui partiva e tornava, il tempo lei lo trascorreva a chiedersi se il loro rapporto avrebbe potuto diventare qualcosa di più e ne era spaventata. Si era al punto che mancava un piccolo passo, per cambiare totalmente la vita di entrambi.
Dopo uno dei rientri di lui da Ginevra, si rividero un pomeriggio. Lei aveva citofonato a casa sua, con la scusa di cercare Maria Rita, che sapeva essere fuori, ma con la speranza che ci fosse lui, c'era.
L'accompagnò a casa a piedi, camminavano lentamente, l'emozione e il nervosismo di entrambi, si tagliavano con il coltello. Cercavano di scherzare, poi lui glielo disse, non esplicitamente, con timidezza le fece capire che l'amava. Lei aveva le mani ghiacciate, avrebbe voluto gridare che anche lei provava lo stesso, ma le uscì una frase che lo fece ridere. Lei disse: “Che ne sarà della nostra amicizia se ci fidanziamo? Se andasse male perderei un amico speciale”. Lui capì che lei era terrorizzata di affrontare il passo, e l'abbracciò. “Me lo dai almeno un bacio?”. Lei gli sfiorò la guancia e scappò via.
Il grande passo era fatto. Due anni dopo si sposarono, il sogno della sorella di diventare cognate si era concretizzato, la vita però, non va mai come ci si aspetterebbe e con il tempo le due grandi amiche e cognate divennero due estranee, passando da liti e rancori, alla totale indifferenza.
Piero e Carla hanno avuto un figlio, sono ancora insieme più complici e legati che mai, dopo quasi quarant'anni.
mercoledì 28 ottobre 2020
Un rito secolare
E viene il giorno. Il sole riscalda appena la terra bagnata di rugiada. Una sottile nebbiolina si stiracchia sull'erba e sulle cime degli alberi. Una gocciolina d'acqua brilla, illuminandosi in un sorriso, prima di evaporare.
Da millenni il giorno della raccolta delle olive è un rito, un lavoro duro, che odora di aspro e di sudore. Col passare dei secoli la tecnologia è venuta un poco in aiuto ma gli odori, i gesti sono gli stessi.
La pianta, carica delle drupe succose e lucide, piega i rami, quasi volesse porgerti quel fardello che essa non vuole più portare.
Si inizia al sorgere del sole. Le reti vengono gettate per una pesca miracolosa, dal frutto uscirà fuori oro liquido.
Si spargono le reti, si tirano come un immenso lenzuolo da stendere sul giaciglio erboso, sotto l'albero. Le dita passano tra i rami, pettinandone la chioma, e pian piano, con un piccolo rumore sordo le gocce nere invadono il suolo. Con le macchine elettriche, che aiutano il lavoro umano, si cerca di velocizzare, ma le spalle vibrano al peso della macchina, il lungo braccio si allunga verso i rami alti, non servono più le antiche scale di legno, i tascapane da riempire a manciate, le vesciche sulle dita delle mani nude che scorrevano tra ramo e ramo, si formavano per usura. Finalmente, al suolo cade una grandine di chicchi neri. Te li ritrovi negli stivali, nelle tasche, i capelli intrecciati a foglie argentee. La pianta tira un sospiro di sollievo, si stiracchia, finalmente libera dalla zavorra. É ora di ritirare la rete. Si alza da terra, lentamente, dai bordi, si guidano le drupe come soldati in battaglia, tutte raggruppate insieme. Sono pesanti, non ci si aspetterebbe di averne così tante, erano tutte sparse qua e là, come puntini su una mappa. Il vento porta l'odore aspro, mediterraneo, nell'aria. Un profumo antico di lampade dalla flebile e tremolante luce, di balsami per le matrone romane, di manicaretti cucinati con amore, di calorie contate con riluttanza.
La pesca è stata abbondante, due braccia non bastano per alzare la zavorra, ci si fa vicini, ci si danno istruzioni reciproche, un poco a destra, un poco a sinistra e via. Il rumore risuona sordo, le olive cadono nella cassetta, la prima di una lunga serie, soddisfazione di un lavoro ben fatto.
Si raduna la rete, la si trascina di nuovo e via, con un altra pianta, ancora e ancora, fino all'imbrunire, quando l'uomo e il sole, ormai stanchi, hanno bisogno di riposo.
Dopo tanto lavoro, a volte di giorni, finalmente si va alla macinatura. Nel frantoio è un via vai di persone, di enormi casse, dove ognuno raduna le proprie olive e aspetta pazientemente che tocchi a lui.
Si pesano, si rovesciano nella vasca che le lava e lascia a galla le foglie residue.
Il rumore assordante della mola riempie le orecchie, nell'aria un odore aspro e pungente, piccante oserei dire. La macchina tritura e spreme: è giunta l'ora. Un flusso di liquido color oro, fosforescente, riempe il recipiente, un tempo le giare in terracotta, ora domina il freddo e sterile acciaio.
Goccia, a goccia scende un filo sottile; esso lega presente, passato e futuro. L'emozione sale, è come essere collegati alla madre terra che ti ha voluto fare un regalo, perché a volte è avara e non sempre elargisce. Se si adombra, per il male che le facciamo, ci nega inesorabilmente i suoi frutti, come madre severa. Noi, come figli disobbedienti, puntiamo i piedi, lei si adira con noi sempre più spesso.
È notte fonda, i grilli sono stanchi di frinire, la luna pallidamente occhieggia, illuminando timidamente la strada del ritorno. Anche quest'anno abbiamo l'olio buono e niente ripaga la grande fatica più che assaporarne lentamente l'aroma pungente e piccante, un poco amaro, su un piatto di spaghetti fumanti: il grano e l'oliva i doni del Mediterraneo.
mercoledì 10 giugno 2020
I gatti del Verano
È una giornata estiva, il caldo fa attaccare alla pelle la camicia bagnata di sudore e nuvole di zanzare impazzite, bramano succhiare la linfa dei pochi vivi che si aggirano tra le tombe.
Il Verano è un luogo che racchiude la Storia, le storie di tanti romani, vicini di tomba, lontani nel tempo che ora sguazzano nell'eternità e magari sorridono dei nostri affanni, ben sapendo che il tempo spazza e livella tutto.
Cammino, lo scricchiolio dei miei passi sul viale mi rammenta il motivo della mia presenza.
L'odore dei fiori marciti, crea un senso di nausea. Fiori disseccati stanno lì, immersi in acque pudride, da mesi. Presi dal vorticare della vita, ci dimentichiamo di loro, che un tempo ci hanno amato, che abbiamo amato. Il dolore si attenua, e piano scivola nella memoria nostalgica, ci sarà tempo per una visita, ma non ora. E loro sono lì, soli, che ci guardano in immagini ferme su ceramica.
Mi soffermo e leggo nomi sconosciuti, date quasi cancellate, immagino cosa potessero fare in vita, chi fossero, i loro legami di affetto, li faccio rivivere pur non conoscendoli.
Quante gioie? Quanti dolori? Perché sono morti, anche in tenera età? Domande senza risposta. Vicino alla tomba di mio padre, ce n'è una dimenticata da tempo. Un uomo ucciso e torturato dagli abissini, in un passato la cui storia, neanche affiora più, presi dal fagocitare notizie del presente che si bruciano in un attimo. La sua storia riassunta in poche parole scolpite sulla lapide, la sua vita ormai sconosciuta, come lui. Nessuno passa più ad onorarne la memoria, mani pietose mettono un fiore, per non lasciarlo solo, per carità cristiana, abbandonato all'oblio.
In mezzo all'immobilità eterna, eccoli, li scorgi solitari, sdraiati al sole, a riscaldarsi sul marmo assolato.
I gatti del Verano, felini dai manti multicolore, pigri, indolenti, ti guardano passare sbadigliando. Chi si pulisce il pelo con perizia, fermandosi a zampa alzata al tuo passaggio, indeciso se scappare o continuare. Due occhi di giada che seguono i tuoi passi. Animali magici, silenziosi e felpati, regali nel loro incedere, ti ignorano sorvegliando. Guardiani di povere anime, di corpi ormai polverizzati, li rispettano, li onorano della loro presenza.
Qualcuno, più socievole ti viene incontro a coda ritta, si struscia, chiede una carezza e del cibo. Non miagola, non vuole violare quel silenzio sacro.
Altri schivi e timorosi si scansano, si alzano infastiditi, con grande dignità si spostano in altre tombe, dove l'uomo vivo, non passa quasi mai.
Sono loro i padroni del luogo, compagni fedeli di uomini ormai eterni. Indipendenti, sdegnosi, a volte ruffiani nell'elemosinare una manciata di croccantini.
Forse loro vedono i nostri morti, si dice abbiano un sesto senso. La vecchia signora, di due secoli fa, che si sposta avanti indietro sul dondolo mentre fa la calza, ormai da duecento anni, il gatto che le siede accanto, adorante. Li immagino così, io, dalla fervida fantasia, riportando in vita lei, donando poteri sovrannaturali al gatto, che si gode l'assolata giornata estiva, infischiandosene dei vivi, che passano e dei morti che restano.
Non c'è passato, non c'è futuro nel loro vivere, c'è solo il presente.
lunedì 20 aprile 2020
Hashtag
In un periodo difficile come questo, la scrittura dovrebbe essere d'aiuto, un'evasione dalla realtà buia in cui ci troviamo, da cui non si sa, se mai riusciremo a scorgere un barlume di luce.
Guardo il foglio, bianco, e i pensieri non sono ordinati, ronzano come api operose, ma non si organizzano per uscire. Quel bianco acceca in un deserto di parole mozzate. Troppe parole udite e troppe lette, in un vortice che tocca tutta la rosa dei venti, da ogni direzione e finisce per asciugarne il significato, lasciando al loro passaggio soltanto un vuoto.
Giornata grigia di pioggia d'aprile, lieve acquerugiola primaverile che non fa che acuire l'ineluttabilità delle nostre effimere esistenze. La natura ci rigetta e si cura da sola, siamo noi il virus da combattere e col virus incoronato ci annienta.
Guardo il tricolare intriso d'acqua, non sventola più ma penzola floscio dai balconi, insieme agli arcobaleni e gli auguri di un futuro migliore, scoloriti dal tempo. Lontano il ricordo dei canti dai balconi, il guardarci negli occhi da un palazzo all'altro, per infonderci quel coraggio che nessuno aveva davvero. Abbiamo tirato fuori la spavalderia dei pavidi, un patriottismo di necessità, ma era la paura ancestrale della morte a farlo riesumare.
Stiamo a casa, ce lo ripetono incessantemente, ci mettono davanti un hashtag, quel cancelletto informatico, ha uno scopo specifico, ma se ne abusa, così la frase: “Restate a casa” col cancelletto davanti, ormai è parte integrante del concetto. Lo si legge sui tabelloni del Raccordo Anulare, dove erano evidenziati i tempi di attesa per le code chilometriche e gli incidenti stradali.
I cancelletti si moltiplicano: restiamo uniti, ce la faremo, andrà tutto bene.
L'umore però scende e gli slogan non reggono più. Boccheggiamo, dentro le mascherine, sui balconi a bere sorsate d'aria, come se rientrando dentro le nostre dimore, dovessimo stare in apnea e battere il record d'immersione.
Mi è capitato di uscire dalla città, me lo consentiva un'ordinanza fresca di proclama. La macchina strisciava su un nastro d'asfalto, tra curve e rettilinei, sola, sembrava la scena di un film apocalittico. La realtà ci ha colpiti come una pallottola in corsa. Un mattino tutto il meccanismo oliato, noi, burattini in un mondo prestabilito, ci rincorrevamo impazziti, poi, è apparso, lui, lo sterminatore.
Non ci abbiamo voluto credere. Non a noi, ma soprattutto perché a noi? Lui, silenzioso, di soppiatto si è comportato da invasore, un invasore di corpi. Il meccanismo si è inceppato fino a fermarsi.
Nella classica fantascienza anni cinquanta, i corpi venivano invasi dagli alieni, ne “L'invasione degli ultracorpi” di Jack Finney. Qui, si tratta di una specie autoctona che disturbata nel suo habitat, ha deciso di lasciarci parte di sé, o, se vogliamo vederla da un punto di vista letterario, di annientarci, per liberarsi di noi: una dichiarazione di guerra.
Avevo pensato di traslare questa orrenda realtà in un racconto, simile, con gli alieni invasori, gli eroi e tutto il cliché classico, ma poi niente, pagina bianca, di un bianco abacinante come era solita dire la mia insegnante di storia dell'arte che per descrivere il colore, aveva un aggettivo soltanto.
Ci sono in mezzo, ci siamo tutti in mezzo, il mondo intero, senza nessun distinguo, la realtà è indigesta.
Non si può plasmare il nostro pensiero, le nostre abitudini su un nemico invisibile, agguerrito e mutevole. La vita non sarà più quella di una volta, senza cancelletto davanti, ma altra frase ripetuta ad libitum, scelta tra un campionario limitato di slogan. Come sarà allora? Ci occorre una certezza a cui aggrapparsi, siamo in balia di onde alte e perigliose. Le risposte viaggiano nel vento, da tutte le direzioni, diventano non risposte, perché alla fin fine, nessuno ha il coraggio di dire che non lo si sa. Il mondo nuovo, il cambiamento che può essere positivo, che dal letame può nascere un fiore, per me sono tutti hashtag senza frase. Da che mondo è mondo, e l'umanità ne ha davvero attraversati tanti di eventi nefasti, non si è mai visto l'uomo cambiare positivamente dopo eventi di tali portata. Ad epidemie è seguita carestia, dopo, guerre.
Fuori continua a piovere e il mio umore si è liquefatto in una pozzanghera limacciosa. Butto tutti gli hashtag nel cestino. Andrà come deve andare. Le mie priorità si sono ridimensionate, ora sogno di rimanere in salute e di poter uscire. Di una cosa sono sicura, quando tutto questo sarà alle spalle, per un po', solo per un po', tutto quello che è sempre stato dato per scontato, come la libertà, avrà un sapore tutto nuovo.
sabato 28 marzo 2020
Tastierista di fotocomposizione
Un punzone (a sinistra) e la matrice da lui prodotta (a destra). |